NOTIZIE GIURIDICHE
E' un reato l'omesso mantenimento dei propri figli
Sappiamo che nelle ipotesi di separazione e divorzio, nel rispetto di quanto previsto dall’art. 30 della Carta Costituzionale “È dovere e diritto dei genitori mantenere, istruire ed educare i figli anche se nati fuori del matrimonio […]” nonché dell’art. 316 bis del Codice Civile “I genitori devono adempiere i loro obblighi nei confronti dei figli in proporzione alle rispettive sostanze e secondo la loro capacità di lavoro professionale o casalingo […]” si prevede che il genitore non affidatario dei figli versi all’altro genitore un contributo al mantenimento della prole.
Ciò in quanto si può cessare di essere un marito o una moglie mentre non si smetterà mai di essere un genitore con conseguente obbligo non solo di mantenere i propri figli ma anche di fornire loro l’istruzione e l’educazione necessaria allo sviluppo della loro personalità proprio come previsto dalla nostra Carta Costituzionale.
L’art. 570 bis del nostro Codice Penale intitolato: “Violazione degli obblighi di assistenza familiare in caso di separazione o di scioglimento del matrimonio”, tutela i figli nei confronti del genitore che si sottrae agli obblighi economici previsti a suo carico nell’ambito della separazione o del divorzio facendogli mancare i mezzi di sussistenza.
Il reato è procedibile d’ufficio ed ha natura permanente. Pertanto, la dismissione della querela non determina l’estinzione del reato che è, come detto, procedibile d’ufficio.
Lo stato di bisogno dei figli non deve essere dimostrato in quanto si presume in relazione alla loro età e tale stato di bisogno non viene meno neppure nell’ipotesi in cui al suo mantenimento stanno provvedendo l’altro genitore o i nonni. Non sono, infatti, oggetto di indagine dinnanzi al giudice penale le capacità di ogni coniuge a soddisfare i bisogni dei figli.
Tale presunzione può essere superata solo laddove si riesca a dimostrare che il minore disponga di redditi patrimoniali, sempre che non si tratti di retribuzione per attività lavorativa, la quale, anzi, rappresenta prova dello stato di bisogno.
La mancata corresponsione dei mezzi di sussistenza ai figli maggiorenni non inabili al lavoro non integra, invece, il reato di violazione degli obblighi di assistenza familiare.
Naturalmente, l’obbligo di fornire i mezzi di sussistenza viene meno solo nel caso in cui vi sia un effettivo ed assoluto stato di indigenza dell’obbligato. Secondo la Cassazione, l’incapacità economica deve essere “assoluta e deve altresì integrare una situazione di persistente, oggettiva ed incolpevole indisponibilità di introiti” mentre non è sufficiente, a tal fine, la semplice indicazione dello stato di disoccupazione dell’obbligato (così Cassazione Penale, Sez. VI, 2 settembre 2014 n. 36636). L’onere della prova di tale stato di indigenza economica grava su chi ha omesso il versamento degli alimenti.
Diritto al parto anonimo
Una recentissima sentenza (Cass. 19824/2020) è tornata ancora una volta a confermare il diritto della madre di mantenere l’anonimato al momento del parto e successivamente per tutto il corso della propria vita.
In base all’art. 30 del Decreto del Presidente della Repubblica n. 396/2000 è stabilito che “La dichiarazione di nascita è resa da uno dei genitori, da un procuratore speciale, ovvero dal medico o dalla ostetrica o da altra persona che ha assistito al parto, rispettando l'eventuale volontà ella madre di non essere nominata”.
Ancora, in base all’art. 93 n. 2 del Codice della privacy “Il certificato di assistenza al parto o la cartella clinica, ove comprensivi dei dati personali che rendono identificabile la madre che abbia dichiarato di non voler essere nominata avvalendosi della facoltà di cui all'articolo 30, comma 1, del decreto del Presidente della Repubblica 3 novembre 2000, n. 396, possono essere rilasciati in copia integrale a chi vi abbia interesse, in conformità alla legge, decorsi cento anni [s.n.] dalla formazione del documento”.
Vi è poi l’art. 28 comma VII della L. 184/1993 che disciplina – negandolo – il diritto dell’adottato all’accesso alle informazioni sulla madre biologica qualora la medesima abbia acceduto all’adozione con richiesta di mantenimento del proprio anonimato.
Dall’esame delle norme vigenti emerge quindi la massima tutela del diritto della madre al mantenimento dell’anonimato in occasione del parto e per tutto il corso della propria vita. Il codice della Privacy individua, infatti, in 100 anni il termine oltre il quale – chiunque vi abbia interesse – può richiedere la copia integrale degli atti di nascita.
E quale è invece nel nostro ordinamento la disciplina che tutela la paternità?
Il padre ha l’obbligo di riconoscere il figlio nato al di fuori del matrimonio e, se non lo fa, la madre ed il figlio stesso possono agire in giudizio per vedere riconosciuto il rapporto di filiazione da parte del padre.
Naturalmente, il legislatore non potrebbe spingersi sino a rendere obbligatorio il test del DNA, tuttavia, nell’ambito del processo, l’ingiustificato rifiuto a sottoporsi al detto test genetico individua una presunzione di paternità e, sostanzialmente, la causa è vinta.
Ma perché il padre non può rimanere anonimo, mentre la madre sì?
Secondo la Corte Suprema le situazioni della madre e del padre non sono paragonabili, perché l’interesse della donna a interrompere la gravidanza o a rimanere anonima non può essere assimilato all’interesse di chi, negando la volontà diretta alla procreazione, pretenda di sottrarsi alla dichiarazione di paternità naturale.
La Corte analizza le ragioni dell’eventuale rifiuto alla paternità o alla maternità: il primo (il rifiuto alla paternità) dettato spesso dalla volontà di sottrarsi agli obblighi economici e alle responsabilità che derivano dalla filiazione, interesse questo non degno di tutela; il secondo (il rifiuto alla maternità) collegato invece a ragioni di carattere personale, spesso connesse alle modalità con cui il figlio è stato concepito e ai rapporti con l’uomo, interesse invece degno di tutela perché rivolto a garantire la dignità umana e il rispetto della persona della donna.
In conclusione, a fronte della costante giurisprudenza che afferma l’inesistenza di una discriminazione nelle norme che tutelano diversamente la paternità e la maternità, la sentenza in commento conferma il diritto inderogabile della madre di mantenere l’anonimato in occasione del parto e nel corso di tutta la propria esistenza.
E’ possibile il divorzio immediato?
Tutti sappiamo che in Italia è necessario attendere il decorso del termine di separazione personale per avviare il divorzio ma se ricorrono particolari condizioni lo step della separazione può essere scavalcato. La legge sul divorzio del 1970 consente il divorzio immediato solo in particolari condizioni.
Tra queste troviamo la condanna del coniuge per reati particolarmente gravi (anche se c’è stata l’assoluzione per vizio totale di mente) ed il divorzio a seguito di sentenza definitiva di rettificazione di attribuzione di sesso, diversamente da quello che risultava nell’atto di nascita.
Il più frequente caso di divorzio immediato ma anche più difficile da provare è costituito dalla mancata consumazione del matrimonio: non devono, cioè, esservi stati rapporti sessuali tra marito e moglie. Non rileva in alcun modo, invece, la ragione che li ha giustificati, ovverosia se essa sia derivata da malattie o altre motivazioni, oppure se sia connessa a questioni psicologiche o emotive o alla libera scelta dei coniugi.
La prova dell'assenza di rapporti sessuali è interamente posta a carico di chi domanda la cessazione degli effetti civili del matrimonio.
Per sciogliere immediatamente il vincolo matrimoniale non saranno sufficienti le mere dichiarazioni dei coniugi che potrebbero anche, d’intesa tra loro, dichiarare il falso ma sarà necessario provare la verginità della moglie o l’incapacità del marito ad avere rapporti sessuali (impotenza coeundi), anche con una perizia medica.
In assenza di tali prove, la dimostrazione dell’assenza di rapporti può essere fornita con ogni altro mezzo, anche per presunzioni cioè attraverso l'argomentazione logico-deduttiva.
Gli indizi desumibili dalle testimonianze di persone informate direttamente dalla parte interessata saranno valutate insieme ad altre circostanze obiettive e soggettive.
Anche la lontananza fisica dei coniugi e la mancata coabitazione potrebbe aiutare a dimostrare la mancata consumazione del matrimonio.
Nell’ipotesi in cui i rapporti sessuali si siano solo diradati nel tempo non è possibile addivenire al divorzio immediato senza la previa separazione.
Il bigamo e il suo cuore pazzo
Una sera facendo zapping su Netflix sono incappata in un divertente film dal titolo “Corazon loco”. La trama è così narrata: Fernando è un uomo onesto, devoto ad entrambe le sue due famiglie, ma un errore lo porta ad uno scontro inevitabile. Il film, secondo Netflix, è una commedia demenziale…
In buona sostanza l’uomo onesto del film aveva vive una doppia vita con due famiglie. Egli definisce il suo cuore pazzo (loco) perché sente di poter amare in modo smisurato entrambe le sue mogli. Naturalmente, le mogli sono all’oscuro di tutto. Ad un certo punto succede l’inevitabile ed il corazon loco si rompe…
Sapendo che in Italia la bigamia è un reato, mentre scorrevano i titoli di coda, mi sono chiesta: chissà a quando risale l’ultima sentenza che ha deciso un reato di bigamia. La risposta è stata del tutto inaspettata – la sentenza che andiamo ad analizzare è del 2016 - così come la lettura della sentenza dalla quale emerge che il fatto narrato dal film è del tutto sovrapponibile a quello deciso dal nostro Supremo Collegio. Quindi, la realtà supera la fantasia!
In Italia, come tutti sappiamo, quando ci si sposa si deve avere uno stato civile libero, non si deve avere nessun altro vincolo di matrimonio.
Nelle società in cui non è consentita la poligamia, la bigamia è il reato di chi, già coniugato, contrae un altro matrimonio, o di chi, non coniugato, contrae matrimonio con persona già sposata. Quindi, la legge non punisce soltanto il bigamo, cioè colui che ha due mogli o due mariti, ma anche colui che si sposa con tale soggetto pur essendo libero: si parla, in questi casi, di bigamia impropria.
Recentemente la Cassazione, chiamata a pronunciarsi su un caso simile a quello della trama del film, ha stabilito che fingersi divorziato pur essendo regolarmente sposato e convivente con la propria moglie costa una condanna per sostituzione di persona (Cass. 34800/2016). I giudici, infatti, hanno confermato che in questo caso si è trattato di sostituzione di persona e non tentata bigamia. Il delitto di sostituzione di persona appartiene al novero dei delitti contro la fede pubblica ma ha natura plurioffensiva, in quanto tutela anche gli interessi del soggetto privato nella cui sfera giuridica l'atto (nel caso l'attribuzione del falso stato) sia destinato ad incidere concretamente. E la nozione di vantaggio, come dimostra l'evoluzione della giurisprudenza, va ben oltre il mero concetto di utilità economica.
Per cui secondo la Corte “non si vede per quale motivo possa essere escluso dalla nozione di vantaggio l'avere instaurato o comunque mantenuto per un apprezzabile lasso di tempo una relazione affettiva e di convivenza”. Secondo i giudici il dolo specifico, nel caso esaminato, stava nell’intenzione di mantenere la relazione affettiva. Obiettivo non centrato perché, malgrado gli sforzi, l’aspirante moglie che nel frattempo era in attesa di un figlio al pari della moglie effettiva, scopre tutto. Le carte per le nozze che non arrivano e la presentazione dei suoceri sempre solo annunciata la insospettiscono. Da lì al pedinamento il passo è breve: il bugiardo seriale viene scoperto mentre esce dalla casa coniugale ed il castello cade!
L'adozione del maggiorenne
La Suprema Corte di Cassazione, con la recentissima sentenza n. 7667/2020, ha offerto una nuova interpretazione dell’art. 291 c.c. relativo alla adozione delle persone maggiori di età “svecchiando” la norma per renderla idonea alla disciplina della fattispecie in linea con l’evoluzione della società e dei rapporti familiari che oggi siamo chiamati a tutelare.
Un breve preliminare inciso sul testo normativo in vigore che ha subito, nel corso del tempo, successive modifiche a evidenza dell’importanza dell’adeguamento della materia all’evoluzione sociale.
L’art. 291 c.c. recita: “L’adozione è permessa alle persone che non hanno discendenti legittimi o legittimati, che hanno compiuto gli anni trentacinque e che superano almeno di diciotto anni l’età di coloro che essi intendono adottare.
Quando eccezionali circostanze lo consigliano, il tribunale può autorizzare l'adozione se l’adottante ha raggiunto almeno l’età di trenta anni, ferma restando la differenza di età di cui al comma precedente”.
Sul testo normativo è intervenuta la Corte costituzionale prima con la sentenza n. 557/1988 dichiarando l'illegittimità costituzionale dell’articolo nella parte in cui non consente l'adozione a persone che abbiano discendenti legittimi o legittimati maggiorenni e consenzienti.
La ratio della norma, nel testo ante dichiarazione di illegittimità, si individuava nella esclusiva funzione sostituiva dell’adozione del maggiore di età alla paternità o maternità legittima al fine della trasmissione del nome e del patrimonio.
La medesima Corte Costituzionale è poi ulteriormente intervenuta sul tessuto normativo con la sentenza n. 345/1992 stabilendo che, nel caso di incapacità dei figli di esprimere l’assenso perché interdetti, sia applicabile, per analogia, l’art. 297 c.c., comma II, così estendendo anche a tale caso il potere di valutazione comparativa degli interessi emergenti attribuito dalla norma al Tribunale.
Infine, la Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità della norma nella parte in cui non prevede la possibilità di pronunciare l’adozione allorché l’adottante abbia dei figli naturali riconosciuti minori o maggiorenni capaci e non consenzienti (così come affermato dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 245/2004).
In base alla norma, poiché l'adottato maggiorenne deve avere almeno diciotto anni, l'adottante di conseguenza non potrà avere una età inferiore ai trentasei anni (a pena di nullità).
Nello scenario delineato si innesta la sentenza in analisi nella quale la Corte di Cassazione ha analizzato la compatibilità dell’art. 291 c.c., nella parte in cui non consente al giudice discrezionalità e deroghe al limite del divario di età tra adottante e adottato imposto in 18 anni, con gli articoli 3,10 e 30 della Costituzione con particolare riferimento alla (dovuta) disapplicazione della norma in quanto ritenuta in contrasto con le norme comunitarie e sovranazionali ossia con l’art. 8 CEDU, l’art. 7 della Carta Europea dei diritti fondamentali e l’art. 16 della Dichiarazione Universale dei diritti dell’Uomo. Inoltre, la sentenza ha argomentato in merito alla ritenuta disparità di trattamento nella fattispecie della adozione del minore di età rispetto alla adozione del maggiorenne evidenziando come il giudice – nel caso di adozione del minorenne – possa discrezionalmente superare la questione anagrafica.
Su tale ultimo punto, il Supremo Collegio ha ritenuto infondata la questione di legittimità costituzionale della norma per ritenuta disparità di trattamento rispetto alla adozione del minore di età evidenziando le differenze tra i due istituti.
Precisamente, mentre l’adozione del minore di età attribuisce agli adottanti la responsabilità educativa sull’adottando oltre ai poteri e doveri che caratterizzano la posizione genitoriale; l’adozione del maggiore di età non implica l’instaurarsi della convivenza familiare e non determina la soggezione del maggiorenne alla potestà del genitore adottivo.
Proseguendo l’analisi delle ragioni di critica alla decisione di merito, la Corte di Cassazione ha concluso per ritenere che l’art. 291 c.c. sia suscettibile di interpretazione conforme alle norme costituzionali mentre ha ritenuto fondato il motivo di critica relativo alla violazione delle norme comunitarie per mancata disapplicazione dell’art. 291 c.c.
La Corte ha ritenuto che l’istituto dell’azione del maggiore di età abbia perso la sua originaria natura di strumento volto a tutelare l’adottante per assumere valenza solidaristica che, seppure diversa dall’adozione dei minori di età, non è immeritevole di tutela. In tale scenario, sempre secondo la Corte, ritenere insuperabile il testo della norma, con rispetto alla differenza anagrafica tra le parti interessate, appare una indebita e anacronistica ingerenza dello Stato nell’assetto familiare in contrasto con l’art. 8 Cedu, interpretato nella sua accezione più ampia riguardo ai principi del rispetto della vita familiare e privata. Secondo la Corte, precludere l’adozione del maggiore di età ritenendo insuperabile l’ormai vetusta ed anacronistica volontà legislativa della differenza minima di età di ben 18 anni costituirebbe espressione di un’interpretazione puramente letterale della norma, preclusa nella fattispecie da argomentazioni di carattere sistematico ed evolutivo.
A sostegno della decisione il Supremo Collegio richiama altresì il contenuto dell’art. 12 delle preleggi la cui applicazione, secondo il giudicante, dovrebbe guidare l’interprete nella ricerca del significato della norma “conforme allo spirito del tempo e della società per cui la norma è destinata a valere”.
Emerge dall’analisi della sentenza il grande sforzo interpretativo della Corte per giungere alla tutela della fattispecie prevista dalla norma ma evolutasi nel tempo, tanto da rendere opportuno un intervento legislativo di adeguamento del sistema alle necessità di tutela della famiglia che siamo chiamati ad affrontare nei tempi correnti.